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Lucrezia e le polpette avvelenate, una riflessione

Il caso delle polpette avvelenate ritrovate a Lucrezia nei giorni scorsi merita una attenta riflessione e non può essere liquidato come semplice fatto di cronaca.

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LUCREZIA – Il caso delle polpette avvelenate ritrovate a Lucrezia nei giorni scorsi merita una attenta riflessione e non può essere liquidato come semplice fatto di cronaca.

Pensare, come si ipotizza, di avvelenare cani e gatti perché spargono deiezioni è ovviamente un atto criminale. Punto. Su questo non ci può essere discussione.  

Ma è altrettanto utile alzare l’orizzonte della discussione. Tra le ragioni di un tale gesto, il sindaco ha fatto riferimento ad una possibile reazione al frequente abbandono di deiezioni (cacche) animali nei parchi cittadini. Questa è un motivo che potrebbe aver scatenato la “vendetta” di qualche concittadino.

Da tutta questa vicenda sembra emergere però un dato centrale che porta ad una riflessione sul senso di comunità o meglio l’assenza del senso e del valore di comunità. 

Una comunità che si reputi tale, necessita di norme che ne regolino i rapporti, ma i suoi componenti devono anche avere la consapevolezza e la capacità di riconoscere quando terminano i propri diritti ed iniziano gli obblighi e il rispetto nei confronti degli altri.

Che non siamo isole, come purtroppo internet ed i social ci hanno troppo abituati a credere, è un dato acclarato. Non posso fare ciò che voglio perché intorno a me ho una comunità: la mia famiglia, le altre famiglie, i miei amici, i colleghi di lavoro, le persone che non conosco e che vivono nel mio stesso paese.

Credo che il dato più inquietante di tutta questa storia sia quello di ritenersi autorizzati a fare tutto senza riconoscere i limiti di una convivenza civile: questo vale per l’atto ignobile di avvelenare degli animali innocenti ma anche per altri comportamenti, sicuramente non paragonabili per gravità, ma ugualmente incivili come quello di non raccogliere le deiezioni dei propri animali, o di spargere rifiuti nelle isole ecologiche o, ancor peggio, lungo i bordi delle strade, e tanto altro ancora. Il tutto senza rispetto della cosa pubblica.

Con una vera “cultura della comunità” in ciascuno di noi, ci sarebbe forse più autocontrollo ed una maggiore efficacia della cosiddetta “sanzione sociale”. 

Questa situazione però non richiede slogan, frasi ad effetto, ma richiedere un lavoro “a testa bassa”, ognuno per i propri compiti e competenze, a “ricostruire” Lucrezia. Lo abbiamo scritto tante volte: negli ultimi trent’anni anni in questo popoloso centro della bassa valle del Metauro si è pensato a costruire case ma non a realizzare i servizi e le politiche necessarie per la comunità che le abita, con conseguenti problematiche di ordine sociale. 

L’altro grande tema, complesso, è quello dell’autorità che nelle comunità democratiche e complesse è necessaria anche per regolare la convivenza comune. Le istituzioni fondamentali della società (famiglia, scuola, parrocchia, ecc.) stanno facendo enorme difficoltà ad affermare una presenza incisiva ed efficace, a farsi riconoscere. Da qui anche il proliferare di fenomeni di delegittimazione e di danneggiamento della cosa pubblica.

Accanto ad un controllo più attento del territorio, tanto per citare le famigerate telecamere, servirebbe una presenza più costante delle forze dell’ordine e che l’autorità vada poi esercitata affinché gli errori vengano sanzionati evitando l’effetto molto italiano del “tanto la scampo comunque”. E tutto ciò è ovviamente un tema che va oltre il problema locale di un piccolo paese come Lucrezia.

Da un fatto increscioso, come questo delle polpette avvelenate, occorrerebbe avviare un processo di confronto e soprattutto di crescita con l’obiettivo di creare una comunità più coesa, unita, in grado di parlarsi dritta negli occhi senza nascondersi dietro una “facile tastiera”, in grado di ascoltare prima di giudicare e soprattutto in grado di mettersi costantemente in discussione. 

In questo modo, una comunità sarebbe capace di dare un bel calcio nel sedere al “polpettaro” che pensa di fare il fenomeno facendosi giustizia da sé.

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