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L’industria ICA di Lucrezia e il mito della tuta blu

Gli anni '60 sono gli anni del boom economico anche a Lucrezia. Marco Manoni racconta l'esperienza industriale dell'ICA ed i tanti cambiamenti sociali

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I dipendenti dell’ICA di Lucrezia

LUCREZIA – Negli anni ’60 l’Italia è in pieno boom economico, sta esplodendo il nostro prodotto interno lordo grazie alle prime industrie e il made in Italy fa il suo ingresso in tutti i mercati del mondo.

Nel comune di Cartoceto nasce un progetto industriale nel settore della carta, da un’idea dell’imprenditore e petroliere Dario Berloni. Passa qualche tempo e il progetto va in porto, sorgono i capannoni in fondo al viale della stazione a ridosso dei binari della ferrovia metaurense in quanto la materia prima arriva dall’America, caricata nelle stive delle navi che poi attraccano al porto di Ancona. Di lì gli imballaggi vengono posti sopra i vagoni ferroviari e giungo nella piccola stazione di Lucrezia dove, grazie ad uno scambio di binari, i vagoni entrano direttamente nell’area della fabbrica.

Oggi i volumi di quei capannoni sono diventati il palasport “Cercolani”, il bocciodromo comunale, e l’area commerciale con caffè e negozi.

Lo stabilimento si chiamava ICA, acronimo che sta per “Industria Cartaria e Affini”. La materia prima è carta paraffinata, scarto delle cartiere americane che, grazie a dei macchinari particolari veniva sottoposta a trattamenti chimici particolari che permettevano di separare la paraffina dalla carta.

Questo era l’iter della lavorazione dei vari reparti dello stabilimento: il primo era il “reparto battitora” dove la carta veniva censita da un paio di donne, passava attraverso una macchina che la sminuzzava fino a riempire un grande cestello; questo, agganciato ad un carro ponte, veniva mandato al “Reparto estrazione”.

Qui il materiale veniva irrorato con trielina e vapore che scioglieva la paraffina e la separava dalla carta. In seguito la carta andava nel “Reparto pressa” per l’imballaggio e la paraffina, allo stato liquido, veniva aspirata dal “Reparto imbianchimento” dove era messa a decantare con l’aggiunta di soda. Successivamente la si portava allo stato solido in formelle da circa cinque chili.

L’ICA rivende la carta a diverse cartiere italiane e la paraffina finiva in un’industria statale chiamata SAFFA (Società per Azioni Fabbriche Riunite Fiammiferi) per essere trasformata in candele, fiammiferi e altri prodotti in cera.

Passano un paio d’anni, intanto inizia l’esodo dalle campagne: è l’inizio della fine della mezzadria. Tanti giovani emigrano ancora all’estero ma in tanti vengono impiegati nelle piccole industrie nate nella nostra vallata. Così inizia l’euforia per la “tuta blu”. Anche io sono in cerca di un posto di lavoro dopo che il proprietario del fondo che la mia famiglia coltivava, aveva venduto e lottizzato il terreno.

È allora che penso di rivolgermi all’industria ICA che, dopo un po’ di tempo, decise di assumermi. Ricordo che impazzivo dalla gioia: un impiego con lo stipendio mensile. Ripensandoci ora mi viene da sorridere perché la mia prima busta paga fu di 50mila lire. Era pur sempre qualcosa perché in campagna di quei tempi di moneta se ne vedeva poca.

All’ICA si lavorava a ciclo continuo: tre turni da otto ore. Questo mi dava la possibilità di avere molto tempo libero per continuare a coltivare il mio impegno nel sociale e nella politica locale, ideali che portavo avanti dopo la scomparsa di mio padre e a cui anche lui teneva tanto. Ricordo anche che in quella prima annata riuscii a leggere anche un paio di libri: Arcipelago gulag dello scrittore russo Aleksandr Solženicyn e Venti lettere ad un amico di Svetlana Stalin.

Intanto mi ero inserito bene nel lavoro in fabbrica: mi avevano affidato un muletto meccanico per sollevare gli imballaggi e caricarli sui camion. Più tardi il capofabbrica mi invitò a prendere la patente per condurre dei generatori di vapore. Così, appena patentato, fui trasferito in “Caldaia”.

Divenni operaio specializzato con un aumento del mio stipendio che da 50mila lire passò a 70mila lire. Fu allora che decisi di acquistare la mia prima automobile: la mitica Fiat 500. Ne beneficiò anche il rapporto con le ragazze: anche loro ormai sognavano “il moroso con la tuta blu” al posto del contadino con un cappellaccio di paglia e la forca per girare il fieno.

Tutto sommato l’arrivo dell’industria ICA ci fece fare un salto epocale nel benessere e nella qualità della vita. Si ampliarono le aree industriali e si svuotarono le case coloniche. Ebbe però anche inizio il degrado dell’ambiente. Dopo una decina d’anni, al posto della “carta paraffinata” arrivò la “carta plasticata”. La Plastica separata in parte andava in discarica e in parte veniva bruciata nella caldaia al posto del gasolio.

Fu questo il periodo di declino della prima fabbrica di questo comune: gli ambientalisti contestarono le discariche e il fumo che usciva dalla ciminiera, nero, inquietante e saturo di diossina e inquinanti. Di lì a poco l’industria chiuse i battenti con un alone di tristezza e di malinconia.

(da il Giornale del Metauro n. 15/16 agosto 2013)

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