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Il ricordo di Milena Pianosi, la maestra Roccetta

milena_pianosi-roccettaLUCREZIA – Esiste la grande storia quella scritta sui libri di testo che impariamo a scuola. C’è poi la micro-storia, altrettanto importante, quella delle esistenze di ciascuno di noi, dei nostri nonni, dei nostri genitori. Storie che hanno, a loro modo, modificato e segnato le nostre vite.
Da dieci anni nel Giornale del Metauro abbiamo sempre riservato uno spazio particolare a questi racconti che, condivisi, diventano patrimonio di una comunità che vuole crescere e magari andare in un’altra direzione rispetto all’odio, all’hate speech imperante.
E’ con piacere quindi che pubblichiamo la storia di Milena Pianosi raccontata attraverso le parole del figlio Marco.

“Mi piacerebbe che fosse ricordata in breve la storia della vita di mia madre. E’ stata maestra elementare per più di 40 anni, insegnando a svariate generazioni di alunni, tra i quali ci sono stato anche io.

Milena Pianosi nata il 13/03/1952 a Cartoceto, residente in via Cesare Battisti a Pontemurello di Cartoceto trasferita ad Acqualagna (da sposata) è deceduta il 4 luglio scorso.

La sua non è stata una vita facile, a 8 anni è stata colpita da una grave forma di poliomielite, che l’ha costretta a letto per diversi mesi e che le ha lasciato dei segni molto profondi.
Infatti è stata operata alla gamba destra, le hanno “bloccato” un piede, rendendola invalida. Anche se questa sua situazione non l’ha mai limitata. Ha sempre vissuto la sua vita appieno, come se nulla fosse. Lei aveva un’ andatura claudicante che la caratterizzava e nonostante tutto ha fatto richiesta di invalidità solo in tarda età. Credo avesse già passato i 50 anni, prima di allora non voleva togliere lo spazio nei parcheggi per disabili a quelli che ne avevano veramente bisogno, lei poteva farne a meno.

A 18 anni ha dovuto subire un altro durissimo colpo, una grave malattia cardiaca le portò via il padre, nonno Secondo. Questo evento la segnò profondamente, ma lei non si fece abbattere dalle avversità.

Iniziò l’università in Urbino e a 21 anni vinse un concorso come insegnante per una cattedra a Milano. Mia madre era del 1952 quindi nel 1973 trasferirsi al nord Italia non era cosa da tutti. Ma lei prese il coraggio a due mani e andò. Riuscì anche a laurearsi in Pedagogia a pieni voti.

Passati 3 anni riuscì a tornare a casa, a Lucrezia, dove ha insegnato nella Scuola Primaria per alcuni anni. In quel periodo conobbe mio padre, più tardi si sposò e si trasferì ad Acqualagna, sia per vivere che per lavorare. Ebbe due figli maschi, io (Marco) e Simone, mio fratello minore.

Era il 1988, quando inaugurarono la nuova scuola elementare e media ad Acqualagna, lei iniziò con la prima elementare, tra l’altro la prima classe della storia dell’istituto e tra quei bimbi che si affacciavano al mondo scolastico c’ero anche io. Essendo nato nel 1982 dovevo iniziare le elementari ed il caso volle, fosse lei ad insegnarmi per tutti e 5 gli anni.
In quell’istituto rimase ad insegnare per quasi 26 anni, la passione e la determinazione nel lavoro la contraddistinguevano a tal punto  che la Scuola era la sua seconda casa.

Poi un giorno, con l’avvicinarsi della pensione per raggiunti limiti d’ età, (lei amava profondamente il suo lavoro e adorava tutti i suoi alunni, i suoi bimbi) si preparava a lasciare l’ insegnamento, avrebbe voluto ritagliarsi del tempo tutto per sé, per riposarsi e per leggere; mia madre era una lettrice incallita (leggeva un libro anche in un solo giorno) e amava dedicarsi totalmente alla sua famiglia.

Quando sembrava tutto andare per il verso giusto, arrivò la malattia.
Era dicembre del 2013, da quasi un mese non si sentiva bene, aveva la pancia sempre gonfia, così ci diceva. Per caso consigliata da un amico comune, decise di recarsi dal dottore per un’ecografia all’addome. Si  notò immediatamente un liquido anomalo,  il dottore ci consigliò di farla ricoverare il prima possibile per delle visite più accurate, ma alla fine il responso fu chiaro, era cancro. Per l’esattezza carcinoma Ovarico, di quelli ai quali non c’è scampo, una condanna.
Da lì iniziò il suo calvario, prima ad aprile 2014 fu operata per l’asportazione delle tube, poi a giugno 2019 ebbe un importante e delicato intervento di citoriduzione presso l’ospedale di Rimini.
Restò più di 22 ore in sala operatoria, le vennero asportate le ovaie e l’utero, inoltre circa 70 cm di intestino. Si perché la ,malattia aveva già intaccato il peritoneo.
L’operazione fu eseguita dal team qualificato. E sembrava tutto andare per il meglio.
Sembrava, perché 2 giorni dopo, il giunto che le era stato applicato all’intestino non resse e lei si ritrovò in shock settico.
Di nuovo venne operata d’urgenza per altre 5 ore, le ripulirono l’infezione e le misero una sacca da stomia.
Fece più di 2 settimane consecutive in rianimazione, la sua vita era appesa ad un filo, ma ne venne fuori.
Si fece quasi 3 mesi di degenza, per poi venir dimessa.
Da lì in poi iniziò il suo percorso di terapia.

La chemio all’inizio fu devastante, le nausee e la perdita dei capelli per lei erano difficili da superare, in più c’era sempre la sacca, un altro bel fastidio al quale abituarsi.
Ma lei pian piano riuscì ad adattarsi a tutto questo, seppur con grande difficoltà cercò di farsene una ragione e di tirar avanti.
Un ricordo che avrò indelebile fu quando per colpa della terapia i primi capelli iniziarono a cadere. Lei vergognandosi di andare dalla sua parrucchiera per il taglio, mi chiese di rasarglieli come quando, in estate facevo con mio fratello.
Fu un momento terribile, cercavo di trattenere a forza le lacrime, anzi cercavo di scherzarci su, facendole notare come dopo il taglio, somigliasse tanto a noi figli.
Addirittura ci facemmo pure un paio di selfie insieme, come se avessimo voluto esorcizzare quell’attimo. Il tempo passava, inesorabile, ci stavamo illudendo di aver trovato l’equilibrio, malattia e paziente erano riusciti a convivere.
Era solo un’illusione.

A fine marzo di quest’anno, ormai compiuti i 67 anni il tumore era diventato resistente alle chemioterapie, non c’era più nulla da fare.
Così inesorabilmente ogni giorno che passava le sue condizioni peggioravano, tanto che il lunedì di pasquetta, dovemmo ricoverarla in pneumologia a Fano per 23 giorni consecutivi. Poi venne dimessa e per due settimane riuscimmo a stare a casa con lei, ma la situazione era diventata ingestibile.
Stava sempre peggio ed aveva necessità di continua assistenza. Capiva ciò che le stava accadendo, nonostante si preoccupava per noi figli, voleva essere informata sul lavoro, sui nostri interessi, non facendoci mancare mai il suo affetto.
Passate le due settimane a casa, venne ricoverata nuovamente all’ospedale di Fano e poi dopo 14 giorni, trasferita al Santo Stefano di Cagli.
Restò lucida e vigile fino a due giorni prima della sua scomparsa, quando voleva sentirci ci chiamava in video conferenza, anche per pochi minuti, giusto per poterci vedere.

Poi il 4 luglio alle ore 12.27 spirò, circondata dai suoi cari, era arrivata alla fine del suo percorso, il male aveva vinto sul suo fisico, ma mai sulla mente.

Si era aggrappata alla vita con tutte le sue energie, lei che era una donnina minuta di poco più 1 metro e 50 cm, aveva sempre fatto di tutto per cercare di vivere il più a lungo possibile, per non farsi vincere da quel mostro che aveva in corpo.

Ancora ricordo che i medici di Rimini dopo il suo secondo intervento e dopo i giorni in rianimazione la chiamavano, la maestra “Roccetta” proprio per la sua forte tempra.
Ecco così mi piacerebbe fosse ricordata, come una donna colta, riservata ma al tempo stesso solare, di saldi principi e di una grande forza interiore”.

Marco Cesaroni

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